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Per il celibato sacerdotale una trappola modernista

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Non spetta a me, laureato presso la laica Università di Bologna in anni in cui gli aderenti a Cl come me venivano aggrediti se tentavano di distribuire volantini nella zona universitaria, difendere l’Università Cattolica di Milano, Cl e Giovanni Paolo II dalle accuse che Alberto Melloni ha lanciato dalle colonne di Repubblica il 4 gennaio. Considero invece materia anche di mia competenza, per una certa parte, smontare gli argomenti che in un articolo precedente, apparso il 16 dicembre, il professore ha portato sul tema non solo del celibato sacerdotale ma del sacerdozio cattolico in quanto tale.

Chi mi conosce e ha parlato con me di certi argomenti, sa che, pur refrattario a ogni progressismo politico, teologico, religioso, artistico, ecc. non sono mai stato contrario per principio all’ordinazione sacerdotale di uomini sposati. Diversamente dall’ordinazione femminile, che romperebbe il simbolismo sacramentale e riscriverebbe la storia della Salvezza, il celibato della Chiesa latina non è un patrimonio dottrinale irrinunciabile: è principalmente una norma disciplinare, un prodotto storico che ha risposto a problemi di ordine pratico e a debolezze umane che rischiavano di compromettere la missione della Chiesa nel mondo. Se ne può discutere, magari per regioni del mondo dove a causa della scarsità di sacerdoti celibatari piccole comunità disperse su grandi territori non riescono a celebrare l’Eucarestia, come è il caso di certe regioni dell’Amazzonia.

Riescono a farmi cambiare idea sull’argomento, cioè a farmi passare dalla parte dei contrari, articoli come quello di Alberto Melloni apparso su Repubblica del 16 dicembre. Leggi lo storico bolognese, e subito pensi che sul celibato ecclesiastico del clero cattolico romano bisogna tenere duro. Tanto per cominciare, per trattare il tema costui non parte dal Sinodo per l’Amazzonia convocato dal Papa nell’ottobre scorso e previsto per l’autunno del 2019. Bensì dalla «raccomandazione bislacca e irricevibile» (ma che sia tale lo dice solo alla fine dell’articolo) della Royal Commission australiana che ha indagato sugli abusi sessuali contro i minori e che, per quanto riguarda quelli avvenuti in ambito cattolico ha consigliato, come provvedimento utile a prevenire il ripetersi del male, l’abolizione del celibato ecclesiastico. Raccomandazione stupida e dettata da pregiudizio, che si era già letta qualche anno fa sulle pagine del New York Times: il mondo è pieno di persone regolarmente sposate che conducono una doppia vita e praticano la pedofilia, e non è certo una fantomatica “repressione sessuale” a pervertire seminaristi e sacerdoti cattolici fino a trasformarli in pedofili; se un prete sente di non poter resistere ai desideri sessuali, può facilmente trovare una compagna, clandestina o no, nel gregge affidato alle sue cure senza ripiegare sui bambini del catechismo. Normalmente in realtà accade il contrario: fra migliaia di parrocchiane, ce n’è sempre qualcuna attirata a tal punto dalla persona del parroco o del suo vicario da indurli in tentazione. Credo di non conoscere nessun prete che non si sia mai trovato almeno una volta in tale situazione. Dunque proporre l’abolizione del celibato ecclesiastico per meglio combattere la pedofilia nelle file del clero cattolico è segno di una perfidia sconfinata, di un pregiudizio malevolo che vuol far passare il sottinteso che il sacerdote celibe è, a motivo della sua stessa condizione, potenzialmente un pedofilo. Melloni deve arrivare a metà del suo commento prima di definire la proposta della Royal Commission un “semplicismo”, e solo nelle ultime 4 righe una proposta “bislacca” e “irricevibile”. Ma subito dopo che l’ha definita un “semplicismo” la rivaluta, pensa un po’, come “felix culpa” che potrebbe spingere la Chiesa cattolica a opportuni ripensamenti.

Per perorare la causa di un futuro clero latino sposato, Melloni evoca poi l’esistenza del clero uxorato delle Chiese orientali e dei sacerdoti anglicani sposati confluiti nella Chiesa cattolica e riconosciuti come preti a tutti gli effetti da un motu proprio di Benedetto XVI. Erroneamente dice che i preti orientali sposati sono molti e quelli anglicani divenuti cattolici pochi: in realtà il clero orientale uxorato cattolico non è affatto numeroso, semmai lo è quello delle Chiese ortodosse dell’Europa orientale e della Russia. Ma lasciamo perdere. Qui la cosa che colpisce è che le Chiese orientali, sia cattoliche che ortodosse, normalmente snobbate dai progressisti perché accusate di appiattimento sulle posizioni del governo al potere, strumentalizzazione della religione a fini nazionalisti, conservatorismo teologico e, in molti suoi esponenti, avversione viscerale a ogni apertura cristiana verso l’islam, improvvisamente diventano un modello a cui riferirsi. Uno dei motivi per i quali non sono contrario all’eventualità di riformare il sacerdozio latino togliendo l’obbligo del celibato è quel po’ di consuetudine che ho da una dozzina di anni a questa parte con le Chiese orientali. Ho conosciuto validissimi sacerdoti uxorati come il melkita Rafic Greiche, parroco a Heliopolis, il quartiere settentrionale del Cairo nei pressi dell’aeroporto internazionale, per molti anni portavoce della Conferenza episcopale egiziana, il quale ha moglie e figli. Non si creda che la decisione di ammettere un uomo sposato al sacerdozio sia presa a cuor leggero dai vescovi orientali, tanto per fare numero. Ho assistito in Libano a un faccia a faccia fra un giovane cristiano caldeo che voleva sposarsi ma anche entrare in seminario e il suo vescovo, mons. Michel Kassarji, che lo invitava a desistere dal progetto. Io presi le parti del vescovo, che apprezzò molto il mio argomento a sostegno delle sue ragioni: quando nella vita si assumono due impegni di capitale importanza che possono entrare in conflitto fra loro, nella nostra mente ci sarà sempre un ordine delle priorità stabilito fin dall’inizio che ci farà decidere per uno a discapito dell’altro. Non è umanamente possibile riservare la stessa e medesima dedizione a due compiti che esigono la totalità della volontà e dell’affetto di una persona.

Ma c’è un altro aspetto decisivo delle Chiese orientali che i Melloni sostenitori del clero sposato dimenticano sempre di ricordare, ed è che nelle Chiese orientali e bizantine non vige il celibato ecclesiastico, ma i vescovi sono tutti scelti fra i religiosi, e quindi sono tutti celibi. Ed è questo, in realtà, il motivo per cui trovo molto attraente il modello ecclesiale orientale: contempera l’esigenza che l’Eucarestia sia celebrata in tutte le comunità, anche le più esigue e sperdute, con la valorizzazione dell’ascetismo come dimensione essenziale della Chiesa. I vescovi sono monaci, e imprimono nelle comunità cristiane affidate alle loro cure lo spirito ascetico, il misticismo, la disponibilità al sacrificio tipiche dimensioni della vita religiosa. Dio sa quanto bisogno ci sia nell’Occidente dominato dall’edonismo, dal consumismo, dalla mondanità, dalla sciattezza dei costumi e, in ambito cristiano, delle liturgie, di una testimonianza cristiana che vada nel senso contrario. Soprattutto di un’educazione del popolo cristiano nel senso contrario, e questa la possono impartire solo vescovi che testimoniano il sacrificio e la rinuncia nella propria carne, insieme ai presbiteri che vedono in loro dei modelli e dei maestri. In Italia vivono da tempo molti immigrati egiziani della Chiesa ortodossa copta, famiglie con mamma, papà e figli. Provate a chiedergli quanti digiuni e quante astinenze di ogni tipo praticano nel corso dell’anno, quanto spesso vanno in chiesa, a che ora si alzano la domenica mattina per andare a Messa e quanto tempo durano le liturgie copte. Le risposte vi lasceranno sbalorditi. Vi sembrerà di essere ripiombati nella cristianità rurale italiana di cento-duecento anni fa. Ma si tratta più semplicemente di comunità cristiane modellate dall’insegnamento e dalla testimonianza di vescovi monaci, supportati da sacerdoti celibi e sposati.

La prova regina della eterodossia di Melloni spunta nella seconda parte del suo intervento, quando scrive: «L’ultima speranza del papa è che il prossimo Sinodo dell’Amazzonia dica che per celebrare l’eucarestia non serve un prete necessariamente celibe, ma un prete necessariamente santo; e che per pascere una comunità non serve un pastore necessariamente maschio, ma necessariamente cristiano». Gli intenti rivoluzionari dello storico bolognese, uniti alla disinvoltura boriosa e insieme noncurante con cui presume di potersi fare interprete del pensiero del papa e sostituire il portavoce papale ufficiale Greg Burke, qui sono palesi: il superamento del celibato ecclesiastico è solo un grimaldello per arrivare al sacerdozio femminile e per svuotare la natura sacramentale sia dell’ordine sacro che dell’eucarestia. Scrivere infatti che il sacerdote che celebra l’Eucarestia deve essere necessariamente santo significa mettere i contenuti soggettivi davanti a quelle oggettivi, una tipica operazione protestante. Il sacerdote cattolico che celebra l’Eucarestia non deve essere necessariamente santo, deve essere regolarmente ordinato e non scomunicato. I suoi peccati non inficiano l’Eucarestia, come ha spiegato san Tomaso d’Aquino per confutare alcune eresie medievali: «La consacrazione fatta da un sacerdote in peccato, in quanto viene fatta da lui indegnamente, è degna di maledizione, e va considerata quindi un’infamia o una bestemmia e non un’orazione; ma in quanto è proferita in persona di Cristo è santa ed efficace», e ancora: «I meriti dei sacerdoti come si distinguono in buoni e migliori, così si distinguono in buoni e cattivi. Se dunque fosse migliore la messa di un sacerdote più buono, ne segue che sarebbe cattiva la messa di un sacerdote cattivo. Ora, questo non è ammissibile, perché la malizia del ministro non può ridondare sui misteri di Cristo, come insegna S. Agostino. Dunque neppure può essere migliore la messa di un sacerdote più santo». (Summa Theologiae, q, 82, articoli 5 e 6)
Chi tira fuori argomentazioni del genere non vuole riformare la Chiesa cattolica: vuole demolirla e sostituirla con un edificio moderno. Anzi modernista.


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