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Chi strumentalizza Marcinelle ha perso pietà e senso storico

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Non c’è bisogno di chiamarsi Matteo Salvini e tanto meno di essere un elettore del suo partito per esecrare quanto hanno scritto il capo dello Stato Sergio Mattarella e la presidente della Camera Laura Boldrini per commemorare l’anniversario della tragedia di Marcinelle, la miniera belga dove l’8 agosto 1956 morirono 262 minatori, 136 dei quali italiani. La prima e la terza carica dello Stato hanno colto la mesta occasione per istituire un incongruo parallelo fra l’emigrazione italiana in Belgio nel secondo dopoguerra e l’immigrazione di massa dall’Africa all’Italia alla quale stiamo assistendo da alcuni anni. E non c’è nessun bisogno di calcare i toni, di usare parole sopra le righe per denunciare la strumentalizzazione della memoria di una tragedia italiana a fini di politica nazionale spicciola. Secondo Mattarella le difficili condizioni in cui gli emigranti italiani si trovarono a vivere e lavorare dovrebbero rappresentare «un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri Paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione Europea»; Laura Boldrini è ricorsa a un tweet per comunicare: «Anniversario tragedia Marcinelle ci ricorda quando i migranti eravamo noi. Oggi più che mai è nostro dovere non dimenticare».

Il contesto storico dell’emigrazione italiana in Belgio e i connotati che l’hanno definita sono talmente peculiari che nessuno dovrebbe azzardarsi a paragonarli alle situazioni contemporanee. E meraviglia che a tanti anni di distanza da quei fatti, debitamente approfonditi da libri e articoli anche accademici e rievocati da serie televisive per il grosso pubblico, le massime cariche dello Stato dimostrino una tale noncuranza della verità storica. Come scrisse tre anni fa su L’Espresso Corrado Giustiniani (e cito L’Espresso, settimanale storico di sinistra, e Corrado Giustiniani che è uno specialista delle vecchie e nuove migrazioni ed è un sostenitore dello ius soli, per disinnescare un certo tipo di reazioni a questo post), «i nostri connazionali erano emigrati in Belgio come minatori, sulla scia dell’accordo “Uomo carbone”, stipulato il 20 giugno 1946 da Alcide De Gasperi con il governo di Bruxelles. L’Italia si impegnava a trasferire nel tempo 50 mila uomini, di età non superiore a 35 anni e in buono stato di salute (le visite mediche avvenivano alla stazione di Milano) e, in cambio, otteneva una corsia preferenziale per il carbone: loro si impegnavano a vendercene 2.500 tonnellate ogni 1.000 operai inviati in ciascuno dei cinque bacini carboniferi. Proprio così: uno scambio tra persone e merce da far accapponare la pelle. Si impegnava anche, il Belgio, a garantire “convenienti alloggi” agli italiani, assunti con contratti di durata annuale rinnovabili. In realtà i nostri venivano all’inizio alloggiati in baracche di lamiera, di legno o di zinco, che già avevano ospitato i prigionieri russi prima, e quelli tedeschi dopo. Solo in un secondo momento ebbero accesso a casette di proprietà della miniera: 250 franchi al mese veniva l’affitto. Se non facevi assenze sul lavoro, beninteso. Altrimenti una penalità di 50 franchi per ogni giorno saltato».

Le differenze fra ieri e oggi sono palesi e inequivocabili. L’invio di italiani in Belgio perché vi lavorassero come minatori era organizzato dai governi di Roma e di Bruxelles. Il Belgio era carente di manodopera per riavviare le sue industrie, e pensò bene di poterla trovare a buon mercato in Italia, paese costretto dalla sua condizione di potenza sconfitta della Seconda Guerra mondiale ad accettare condizioni umilianti. In altre parole, non disponendo di alcuna risorsa finanziaria l’Italia a quel tempo pagava i danni di guerra agli altri paesi con la carne umana dei suoi cittadini, cedendo in uno scambio ineguale la loro forza lavoro in cambio di materie prime e stipendi da fame. E gli altri paesi erano ben contenti di poter rimpiazzare i loro lavoratori morti in guerra con laboriosi e poco costosi operai italiani: la Germania aveva perso 7,5 milioni di abitanti, l’Italia “solo” 472 mila.

Dunque le differenze sono tante. Il Belgio, la Germania, ecc. volevano tanti lavoratori migranti italiani, l’Italia di oggi vorrebbe un po’ di migranti ma molti di meno di quanti ne stanno arrivando e molto più selezionati dal punto di vista delle attitudini e capacità lavorative: non a caso il premier Gentiloni nel giorno stesso delle dichiarazioni di Mattarella e Boldrini si compiaceva del fatto che la nuova politica italiana sui soccorsi in mare stava dando frutti in termini di riduzione dei flussi migratori, obiettivo evidentemente desiderabile. Negli anni Cinquanta il Belgio, la Germania, ecc. immettevano immediatamente gli immigrati italiani nei loro cicli di produzione industriale; l’Italia di oggi alloggia decine di migliaia di stranieri in centri di raccolta di vario tipo in attesa di vagliare la loro posizione, quasi tutti restano inattivi o vengono inseriti in attività lavorative marginali. Belgio, Germania, ecc. estraevano immediatamente plusvalore dai nostri immigrati, l’Italia invece quest’anno spenderà 4,5 miliardi di euro per l’accoglienza dei migranti, e che questa cifra possa rappresentare un investimento destinato a diventare redditizio in futuro è soltanto una speranza flebile, anche perché quasi tutta la somma se ne va in costi e non in formazione. L’Italia del secondo dopoguerra incentivava le partenze di migranti sia dalle regioni del Sud per il Nord del paese (dove stavano le industrie da riavviare) che per l’estero; i paesi africani sono indifferenti ai loro stessi flussi migratori, che rispondono a strategie familiari o individuali e non nazionali, oppure sono contrari. In Mali, in Etiopia, in Nigeria sono state fatte campagne pubblicitarie sponsorizzate dalle autorità pubbliche per scoraggiare l’emigrazione o almeno le sue forme criminali. Paesi come la Costa d’Avorio autorizzano l’Italia a realizzare sul suo territorio programmi di cooperazione internazionale che hanno fra le loro componenti iniziative direttamente mirate a scoraggiare l’emigrazione verso il nostro paese. Le Chiese africane tutte indistintamente sconsigliano l’emigrazione verso l’Europa dei giovani africani, e li invitano a impegnarsi per cambiare le condizioni politiche ed economiche dei paesi in cui vivono.

E ancora: i migranti italiani partivano con certificati di sana e robusta costituzione, rilasciati dalle autorità sanitarie italiane, mentre le condizioni di salute dei migranti odierni vengono verificate solo una volta che gli stessi sono arrivati sul suolo italiano, e le eventuali cure sono a carico del sistema sanitario nazionale; i viaggi dei migranti italiani verso le località europee di destinazione erano molto scomodi (trasferimenti per via ferroviaria in condizioni simili a quelle della tradotta militare) ma non pericolosi, mentre l’emigrazione clandestina dall’Africa o dall’Asia si svolge in condizioni molto pericolose che causano migliaia di morti all’anno, sia per inedia nel deserto del Sahara o sui passi di montagna asiatici, sia per annegamento nel mare Mediterraneo; l’emigrazione italiana del secondo dopoguerra avveniva in un contesto di legalità e di costi di viaggio modesti, quella degli stranieri che vengono in Italia oggi avviene in larghissima parte in un contesto di illegalità che alimenta reti di criminalità a vari livelli e ha costi molti alti in termini finanziari per l’emigrante.

Strumentalizzare l’anniversario della tragedia di Marcinelle per giustificare le odierne politiche migratorie di un governo è una scelta davvero infelice. I morti, si sa, sono alla mercé della pietà dei vivi: non possono difendersi dalle strumentalizzazioni, non possono più chiedere giustizia. La domanda «cosa significano quegli avvenimenti, quei morti per noi oggi?», che ciclicamente viene riproposta a ogni commemorazione di tragedie storiche, è estremamente ambigua, perché sottintende che le vite spezzate non hanno un valore in sé, intrinseco e insostituibile, ma devono piegarsi a un’utilità nel presente. Presente sempre più incapace di un rapporto sano col passato, che richiederebbe contemplazione, immedesimazione, gratitudine nei confronti di chi ci ha preceduto. La presunzione di essere migliori dei nostri padri e l’identificazione di noi stessi con la nostra volontà di potenza che trasforma il mondo tutto in strumento della nostra personale affermazione (comprese le carriere politiche) ha falsato il nostro rapporto con la storia e con gli antenati.

Foto Ansa


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